
WASHINGTON -Nessun atto ufficiale a Bruxelles. Filo diretto tra Ursula von der Leyen e Donald Trump per strappare, all’ultimo giro di lancette, un’intesa ancora appesa a un equilibrio fragile.
Quando a Washington era da poco passato mezzogiorno – le sei del pomeriggio in Europa – il presidente americano ha affidato a Truth l’annuncio delle attese lettere sui dazi ai Paesi ritenuti non collaborativi: Giappone, Corea del Sud, Myanmar, Laos, Sudafrica, Malesia e Kazakistan i primi sette destinatari della scure dal 25 fino al 40% a partire dal primo agosto.
E mentre Wall Street accusa il colpo, con il Dow Jones e il Nasdaq in sofferenza, nel continente per ora le trattative proseguono seguendo il ritmo volubile della Casa Bianca. La finestra negoziale – estesa da un nuovo ordine esecutivo del tycoon – resterà aperta fino all’inizio del prossimo mese. Ma il tono e la traiettoria dei colloqui per l’Ue sono nelle mani della leader tedesca che, dinnanzi al Parlamento europeo, ha ribadito con nettezza la linea: negoziare “con forza e unità”. Una regia condivisa con Berlino, Roma e Parigi, testimoniata dai contatti costanti che il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha avuto anche con Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron per rinsaldare il fronte attraversato da sensibilità e urgenze diverse. Lo scambio domenicale tra von der Leyen e Trump, annunciato all’indomani da Palazzo Berlaymont, non sarebbe stato isolato: contatti analoghi tra i due presidenti, secondo quanto è trapelato, si sono susseguiti nelle ultime settimane. “Siamo all’inizio della fase finale e per posizionarci al meglio nel negoziato non possiamo aggiungere altro”, ha spiegato un portavoce dell’esecutivo Ue, ribadendo la volontà confermata dai commissari Maros Sefcovic e Valdis Dombrovskis – rispettivamente agli ambasciatori e ai ministri dell’Economia dei Ventisette – di ottenere “il miglior accordo possibile” con Washington. Scongiurando così l’imposizione delle tariffe reciproche annunciate nel Liberation day – che si sommerebbero a quelle pesanti e già in vigore del 25% sulle auto europee e del 50% su acciaio e alluminio – accompagnate anche dall’ultima minaccia che fa tremare l’Italia e la Francia: un ulteriore 17% sull’export agroalimentare Ue.
Ormai tramontata la proposta europea di dazi zero per l’industria, i negoziatori di von der Leyen puntano sul compromesso dell’aliquota comune al 10%, con margini di flessibilità e possibili esenzioni per settori strategici come aviazione, tech ed eccellenze alimentari del continente. Si guarda con attenzione ai precedenti: i soli due accordi firmati finora da Trump negli scorsi 90 giorni, con Regno Unito e Vietnam, caratterizzati da un approccio graduale e per comparto. Parigi, con l’appoggio di Austria e Spagna, spinge per una linea più muscolare – fino a evocare il ricorso allo ‘strumento anti-coercizione’ che inciderebbe sulle Big Tech – per non piegarsi a “un accordo a ogni costo”. Nella visione di Berlino, invece, serve pragmatismo anche per tutelare l’industria automobilistica. “Il tempo è una variabile cruciale. Il negoziato è ancora in corso: stiamo costruendo, passo dopo passo, una posizione comune europea”, ha fatto sapere il portavoce di Merz. Il rischio del ‘no deal’ però resta sul tavolo accanto alla rappresaglia che Palazzo Berlaymont per ora ha soltanto messo nel cassetto. I due pacchetti di contromisure – uno già congelato in primavera e l’altro ancora in fase di finalizzazione – sono pronti a essere sfoderati per una stangata sui prodotti Usa che, nel complesso, potrebbe toccare i 120 miliardi di euro.
E Bruxelles non esclude di mettere in campo strumenti più incisivi per arrivare a colpire anche le major del tech. L’ultima parola non è comunque ancora scritta e, se nei prossimi giorni dovesse maturare un’intesa di principio, in un prossimo futuro non si esclude una missione ufficiale di von der Leyen a Washington per siglare l’accordo definitivo. Un déjà vu diplomatico: era fine luglio 2018 quando Jean-Claude Juncker, con la tempesta dei dazi su acciaio e alluminio ormai esplosa, volò alla Casa Bianca portando a casa la tregua offrendo in cambio di una cooperazione rafforzata sull’acquisto di gnl statunitense. Una contropartita che, insieme a un maggiore impegno sull’importazione di armamenti americani, Bruxelles ha rimesso sul tavolo anche sette anni dopo.