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“Perché ha vinto Trump” di Carlo Sorrentino

“Perché ha vinto Trump” di Carlo Sorrentino

Le elezioni americane come al solito non riguardano sono gli Stati Uniti, ma incidono sulle sorti dell'intero pianeta. Questa tornata elettorale ci ha appassionato e in qualche modo anche stupito per un risultato netto che ha portato Trump a tornare alla Casa Bianca e avere la maggioranza sia alla Camera che al Senato, mentre la maggior parte dei sondaggi dava un testa a testa fra i democratici e i repubblicani.

Toscana Post ha voluto approfondire il perché di questo risultato e cosa è successo negli Stati Uniti coinvolgendo Carlo Sorrentino, Presidente della Scuola di Scienze Politiche "Cesare alfieri" dell'Università di Firenze.

Questo il suo contributo:

"Se dovessi usare un acronimo per spiegare le cause del voto americano, direi CEI. No, i vescovi della Conferenza Episcopale Italiana non c’entrano niente.

CEI sta per cultura, economia e immigrazione. I 3 principali motivi che spiegano il voto americano. Peraltro, strettamente intrecciati fra loro.

Iniziamo dalla I. L’immigrazione, ormai, caratterizza le elezioni in tutti gli stati democratici, al di qua e al di là dell’Atlantico. Gli immigrati sono considerati la causa principale della percezione d’insicurezza nella vita quotidiana; notevolmente acuita dal senso di progressiva irrilevanza che le classi medie occidentali stanno vivendo come conseguenza della globalizzazione. Eh sì, perché se ci sono degli sconfitti della globalizzazione, che pure ha tolto dalla povertà più di un miliardo di persone nel mondo, è proprio la classe media del mondo occidentale. Quei forgotten men con cui si è spiegato il successo di Trump del 2016, che in realtà coinvolge fasce più diversificate rispetto al maschio bianco di bassa istruzione dell’America di mezzo.

E qui arriviamo all’economia. La presidenza Biden ha prodotto il più massiccio sforzo di investimenti pubblici dai tempi del New Deal, andati a beneficio dei più bisognosi. Ma questo non è bastato a modificare la convinzione di un continuo e progressivo impoverimento da parte di tanti elettori. I motivi sono due. Innanzitutto, l’inflazione, che si avverte nelle tasche molto prima degli investimenti strutturali, per i quali ci vuole tempo: paradossalmente se ne gioverà l’amministrazione Trump. In secondo luogo, la sensazione da parte delle persone di una condizione economica che peggiora non riesce a essere smentita dalla constatazione che gli Stati Uniti continuano a essere il Paese con l’economia più forte e con le migliori performance. Ognuno si compara con il sé stesso di qualche anno prima oppure con i propri “vicini”. Poiché negli Usa come in Europa la forbice fra i benestanti e tutti gli altri si allarga sempre più, la convinzione (e la conseguente rabbia) per l’impoverimento è più forte di quanto non sia in realtà.

Ci stupiamo se i più bisognosi votano per destre rappresentate da miliardari arroganti. Tuttavia, lo stupore si attenua se analizziamo il voto – negli States come altrove – attraverso motivazioni di stampo culturale, che non spieghino tutto con l’economia, ma considerino emozioni e sentimenti. In Europa quanto negli USA sono nate leadership populiste, che hanno scalato partiti oppure ne hanno formato di propri, che promettono un ritorno al passato. Un passato idealizzato e un ritorno impossibile, ma che funziona nei confronti di chi si sente più povero, incerto e insicuro. A queste leadership il partito democratico negli Usa e quelli di centro-sinistra in Europa hanno contrapposto una visione del futuro, che non è, però, lo stesso che ha reso forte e popolare la visione socialdemocratica del Novecento, basata su una maggiore equità, in un benessere crescente per sempre nuove fasce sociali.

Il futuro è rappresentato come un dover essere che facciamo fatica a realizzare e che, comunque, nell’immediato penalizza. Si pensi, ad esempio, alla svolta ambientalista, assolutamente necessaria, ma che nel breve è vista come portatrice di disoccupazione e di miseria: provate a parlarne con un operaio dell’industria automobilistica! Certo, si promette un ambiente più pulito e un numero anche maggiore di posti di lavoro, ma per competenze che molti lavoratori sentono di non avere e che mai riusciranno a farsi.

Se ci spostiamo su di un piano ancora più strettamente culturale, la progressiva quanto sacrosanta attenzione verso le ingiustizie sociali e razziali si sta spesso trasformando – soprattutto negli USA – in formalismi che gli americani chiamano wokeism e che è ben sintetizzata dalla cancel culture. Un esempio permette di chiarire: a detta di molti analisti, la maggior parte degli italo-americani newyorchesi ha votato per Trump per contestare la decisione del sindaco democratico di New York, Bill De Blasio, che ha inserito il monumento a Cristoforo Colombo nella lista dei monumenti da abbattere perché «discriminatorio».

A torto o a ragione, molti elettori sentono un senso d’inadeguatezza, avvertono buona parte della cultura woke come distante e, soprattutto, per loro colpevolizzante.

Insomma, nelle società dell’incertezza come sono quelle in cui viviamo, l’illusione di un impossibile ritorno al passato conforta, rispetto a un futuro che appare nebuloso e nel quale molti non riescono a collocarsi e, anzi, si sentono dalla parte sbagliata, fuori posto, nel torto.

Per invertire questa tendenza occorrerà costruire un’idea di futuro meno colpevolizzante, in cui aver voglia di riconoscersi e collaborare. Pur, evidentemente, non abbandonando le indubbie ragioni rintracciabili dietro a proposte politiche tese a generare una società più giusta e inclusiva. Altrimenti, il vento del populismo non potrà che soffiare più forte. Con tutto ciò che ne consegue!"

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